lunedì 3 agosto 2009

Milano, «Giù le mani dall'Innse»


La fabbrica che vogliano smantellare e gli ultimi quarantanove di via Rubattino


I quarantonove della Innse resistono, sotto la tettoia all’ingresso, uno accanto all’altro e di fronte ai carabinieri con gli scudi e i manganelli. Piove a Milano, zona Lambrate, e nessuno ha voglia di bagnarsi. Stretti stretti, loro a proteggere i macchinari, torni e alesatrici, i carabinieri a proteggere quelli che dentro, all’asciutto, i macchinari li stanno facendo a pezzi.

Bulloni che saltano, lamine che si piegano: la demolizione di tonnellate di ferro, acciaio, ghisa, la demolizione di una storia.
L’Innse sta a Lambrate in via Rubattino, che non è una via qualunque. Una quarantina d’anni fa, nel Sessantotto operaio oltre che studentesco, fu un campo di battaglia: quanti volantini sono stati distribuiti in via Rubattino, quanti presidi ha visto via Rubattino, prima per salvare l’Innocenti, quella che produceva le automobili, poi per salvare la Maserati o qualche altro capannone della zona.

Adesso basta girare attorno e provare a percorrerla a piedi per capire come sono andate le cose. Di là ci sono le torri abitate da due anni, un paese con la sua piazza e la sua fontana al centro. Alle spalle ci sono i loft. A fianco il parallelepido tecnologico, rivestito di specchi viola che sfumano verso il rosso. In mezzo l’esselunga rubattino: un simbolo, il frutto di uno scambio, quando le catene di montaggio delle auto furono barattate con i carrelli della spesa. Almeno si salvava qualche decina di posti di lavoro: da operaio metalmeccanico a commesso, cassiere, magazziniere.

L’Innse è più avanti, al civico 18. Ci arrivo seguendo due giovani rom, un ragazzo e una ragazza, che camminano tra le pozzanghere per raggiungere chissà quale baracca, chissà quale roulotte, in mezzo a quei prati della disperazione e dell’immondizia, non è verde normale ma deteriorato, inquinato. Il muro sulla sinistra è già Innse. Si capisce: «Giù le mani dall’Innse», sta scritto dipinto a caratteri cubitali. Chissà a quando risale quella scritta. Davanti al cancello, uno striscione rosso ripete: «Giù le mani dall’Innse». Una speranza? Una cosa che si deve dire, per forza?

Gli operai non sono ragazzi, qualcuno andrà in pensione. Claudio ha trent’anni d’anzianità e l’aria assai giovane: indossa la maglietta «giù le mani dall’Innse». Anche l’impiegata dell’ufficio personale dai capelli biondi e corti, ha trent’anni d’anzianità, ma non potrà andare in pensione: se si chiude tutto, le capiterà la mobilità, espressione ambigua e irriverente, come se uno potesse andare da una parte all’altra e invece si troverà semplicemente, come si diceva una volta, in mezzo la strada. Stanca di presidiare? In quarantanove, da più di un anno (maggio 2008).

Si sono fatti pure tre mesi di autogestione, rispondendo loro, i quarantanove, alle richieste dei clienti. Perchè ripetono che l’Innse clienti ne aveva e ne avrebbe ancora, visto che sa fare pezzi di precisione, «al centesimo». Al centesimo? «Sì al centesimo, per tanti paesi al mondo e persino per i satelliti artificiali francesi. Siamo operai specializzati...».

E si sente ancora l’orgoglio di chi sa maneggiare quelle macchine, di chi li ha curati, di chi li ha visti crescere. Ma a un senso dire che li si vuole smontare per rimontarli poi da un’altra parte? «No, non ha senso, perchè è una operazione complicata, che si sarebbe dovuta programmare nel corso di anni. Sono pezzi che pesano tonnellate, che hanno raggiunto la perfezione dopo un lungo tempo e dopo un lungo aggiustamento». Basta immaginare la mole, il peso, il bestione che si sistema al suolo...

Quindi Genta, il padrone da due anni (acquistò in amministrazione controllata per 750mila euro, pare con la benedizione dell’ex ministro leghista Castelli) vende solo “ferro vecchio”, dopo aver venduto l’area (all’immobiliare Aedes), trecentomila metri quadri tra coperto e scoperto, un altro quartiere con la piazza e la fontana e l’ipermercato a fianco (c’è pronto persino un progetto dell’Expo per un campus e ovviamente per i centri commerciali).

Destino di una città industriale e operaia come Milano con la vocazione mai doma alla speculazione edilizia, come s’è visto e si vedrà al Portello, alla Bicocca, a Rogoredo dove s’alzavano i forni della Redaelli ed ora si alza il palazzone di Sky e di Murdoch e si alzano le prime case di Santa Giulia. Chissà se ne sorgeranno altre: anche gli immobiliaristi piangono talvolta le loro crisi, rischiando, come Zunino, inventore di Risanamento, il fallimento.

I quarantanove della Innse non chiudono. Chiediamo se si sono sentiti accanto la politica e le istituzioni. I loro delegati è dalla mattina che attendono un incontro con Formigoni, il presidente regionale, che aveva garantito: niente blitz d’agosto. Maroni evidentemente non era d’accordo. I blitz si fanno sempre d’agosto, dopo i grandi esodi. Claudio non risponde a proposito delle istituzioni. Hanno fatto tutto da soli: l’autogestione, il presidio. In quarantanove: «Quando siamo entrati noi, trent’anni fa, erano tre quattromila. Siamo dei superstiti, però con una gran voglia di lavorare». «E con un grande attaccamento alla fabbrica», marca l’impiegata.

Non è la crisi d’oggi. È un declino che viene da lontano, è il degrado di una cultura, di un sistema, di un paese, della sua capacità d’impresa. Un degrado calcolato: quando manca, come si dice, una politica industriale. Persino in Svizzera ne hanno parlato e sul muro del consolato italiano a Basilea, come si vede nel sito di Indymedia, qualcuno ha scritto: «Giù le mani dall’Innse».

di Oreste Pivetta
fonte:/www.unita.it