domenica 21 dicembre 2008

NO ALL' ORARIO DI LAVORO A 65 ORE SETTIMANALI





L'orario settimanale resta di 48 ore. Tre anni agli Stati Ue per mettersi in regola


STRASBURGO - Il parlamento europeo ha respinto in seconda lettura la proposta di portare la settimana di lavoro nell'ue fino a 65 ore, accogliendo tutti gli emendamenti della commissione lavoro.GLI EMENDAMENTI - Tutti gli emendamenti sono stati approvati con una maggioranza superiore ai 393 voti richiesti, essendo il provvedimento in seconda lettura. Quello determinante, passato con 421 sì, 273 no e 11 astensioni e accolto da un applauso dagli eurodeputati, stabilisce che l'orario settimanale è di 48 ore e concede tre anni agli Stati Ue per derogarvi arrivando alle 65 ore settimanali, di fatto eliminando la possibilità di 'opt out' al termine del periodo transitorio. Il relatore, lo spagnolo Alejandro Cercas (Pse), è stato abbracciato da molti colleghi subito dopo le votazioni sugli emendamenti. «Questa è un trionfo per tutti i gruppi del parlamento europeo ed è l'occasione per il Consiglio di cogliere questa opportunità per rendere la nostra agenda più vicina a quella dei cittadini europei», ha affermato Cercas subito dopo il voto.DAMIANO: «SCONFITTA POSIZIONE SACCONI» - Una vera e propria sfida del Parlamento europeo al Consiglio Ue sulla direttiva sull’orario di lavoro. Bocciato, dunque, il tentativo del Consiglio Ue di introdurre la possibilità per gli Stati membri di applicare deroghe permanenti al principio del limite di 48 ore settimanali. Soddisfatto il ministro ombra del Pd Cesare Damiano: «Una eccellente notizia, perfettamente coerente con l’esigenza di combattere la disoccupazione. Questa proposta era stata favorita dal ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, fin dall’insediamento del nuovo governo Berlusconi. Sacconi è stato abbandonato dalla gran parte degli stessi parlamentari italiani del centrodestra che siedono al parlamento europeo. Questo a dimostrazione dell’incongruenza, in questa grave situazione, di proposte che allungano gli orari di lavoro e detassano gli straordinari. Una salutare retromarcia dalla quale il governo deve trarre insegnamento».