lunedì 20 aprile 2009

ALL'OPERAIO NON FAR SAPERE



I nuovi contratti sono buoni, dicono,perché legati alla produttività. Ma chi lavora alle presse come fa essere
pù produttivo?
Lavoratori (pronunciare la parola con un po’ di sarcasmo, come nell’indimenticato film felliniano «I vitelloni»), finalmente avete il nuovo contratto. Quello vero, quello giusto, quello che conviene a tutti: fa felice il padrone e contento l’operaio. È possibile?
Emma Marcegaglia vede l’alba di un nuovo mondo e lo dice così, in un articolo a piena pagina del Corriere della Sera dal titolo «Decolla la riforma dei contratti» (16 aprile): «Questo è un buon accordo che va nella direzione europea, esattamente come stanno facendo altri Paesi. Abbiamo introdotto regole precise per cui i contratti non devono essere momenti di conflitto o di Far West».
Sono parole incoraggianti che si dicono per qualunque prodotto nuovo. In tutte le vendite «nuovo» vuol dire «migliore», e ci sono sempre nove dentisti su dieci disposti a garantire. Ma, come nei prodotti «nuovi» e «migliori», noi non sappiamo e non sapremo mai nulla dei nove dentisti che hanno provato, hanno approvato e che raccomandano. Allo stesso modo, non sappiamo nulla di quella «esatta direzione europea» verso cui sta puntando il nuovo accordo contrattuale italiano. Nessun nome dei nove su dieci Paesi europei che hanno già sperimentato l’accordo Marcegaglia e si sono trovati bene.
Ma vediamo, come si dice nei convegni, il merito. Ce lo spiega la didascalia del Corriere sotto il titoletto «L’intesa». «Ci saranno due livelli: un contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria e un secondo livello di contrattazione aziendale o territoriale. L’obiettivo è quello della crescita fondata sull’aumento della produttività».
Gulp! E come fa il contratto «aziendale» o «territoriale» (strano, no? Il rapporto salario-territorio ricorda i tempi delle gabbie salariali) a far lievitare come un soufflé la produttività, che invece - ci dicono - è schiacciata dal peso e dall’ingombro del contratto nazionale?
Una risposta ci sarebbe: con il contratto nazionale sei più forte e ottieni di più, con quello «aziendale» o «territoriale» la forza dell’impresa, con tutti i suoi avvocati, diventa grandissima. Quella dei lavoratori molto meno. 
Santo cielo, signora Marcegaglia, di film sul come contrattare e difendere i diritti del lavoro ce ne sono tanti. Per l’Europa le consigliamo Ken Loach. Ma per l’America vada direttamente alla voce «diritti civili» (comprendono anche i diritti del lavoro) e a Martin Luther King. Lei crede davvero che se il reverendo King, dopo una generica stretta di mano a Washington con il governatore razzista George Wallace, avesse sottoscritto, per amor di pace, un contrattino a Selma e uno a Montgomery, un accordo magari modesto, però «senza fare il Far West» a Little Rock e un altro a Baton Rouge, avrebbe ottenuto lo stesso fiume di diritti e rispetto che - quarant’anni dopo - hanno portato alla Casa Bianca il presidente Obama?
Si dirà che non è il caso di alzare i toni e che il contratto di lavoro non è così drammatico come la lotta per i diritti civili. Mica tanto: nel lavoro italiano si va da uno a tre morti al giorno e sono stati diminuiti, per risparmiare, i controlli sulla sicurezza. Conta niente come dramma?
Si dirà: ma nove dentisti su dieci... mi correggo: tre sindacati generali su quattro (c’è anche la nuova Ugl di Renata Polverini tra gli entusiasti) hanno firmato. Lo hanno certo fatto in scienza e coscienza. Ma perché questi leader sindacali non hanno voglia di dire in piazza, davanti alla loro folla (poi ci dirà la questura quanti) le ragioni del loro entusiastico sì, come ha fatto democraticamente a Roma Guglielmo Epifani il 4 aprile confermando davanti ai suoi iscritti (forse 3 milioni, forse 200mila) il no della Cgil?
Resta una domanda, soprattutto per il Pd. Se siamo nel mezzo di una crisi globale pagata dovunque soprattutto dagli operai, dai quadri, dai precari, una crisi definita la più grave in molti decenni, siamo sicuri che la prima cosa da fare fosse precipitarsi a recintare i lavoratori in luoghi sempre più piccoli, affinché contino sempre meno, proprio mentre non si può garantire, in cambio, più sicurezza del posto, perché un lavoro, quando si perde, si perde nel cielo di una crisi globale e non è radicato o garantito nei territori separati dei nuovi contratti?
Resta una frase misteriosa come una scritta tombale egizia. I nuovi contratti sono buoni, e saranno buoni, perché legati alla produttività. Chi me lo spiega come può un operaio alle presse essere più produttivo dei tempi che gli sono stati assegnati per ogni pezzo e per ogni gesto, senza giocarsi le dita e dunque (cito la vera perdita) senza mandare all’aria la produzione di una intera mattina?
Furio Colombo
19/04/2009 |  Unità  |  Lavoro