giovedì 30 aprile 2009

Le relazioni sindacali in tempo di crisi



Relazioni industriali a un punto di svolta? La crisi globale in atto sembra aver ridisegnato scenari nuovi nei rapporti tra le parti sociali e i governi; emergono nuove conflittualità che credevamo lontane, mentre anche i modelli in cui tradizionalmente si sono affermate le realtà sindacali dei diversi paesi europei (il modello scandinavo, quello italiano, anglosassone, tedesco eccetera) paiono profondamente messi in discussione dalla necessità di affrontare situazioni inedite in un contesto peraltro anche globalizzato, che prevede l’irrompere dei lavoratori dei paesi dell’Est del secolo scorso.

Di questi temi – peraltro assai impegnativi – abbiamo discusso con Colin Crouch, sociologo insigne e tra i massimi esperti di relazioni industriali (cfr Relazioni industriali nella storia politica europea, Ediesse, Roma, 1996). Crouch – che nei suoi studi applica assai spesso modelli comparativistici e in cui dunque la dimensione europea dei fenomeni che analizza è sempre fondamentale – si dice convinto che i sistemi di relazioni industriali sviluppatisi in particolare negli anni ottanta e novanta siano ormai scarsamente utilizzabili per analizzare i fenomeni in corso: “Le diversità sono ormai sempre più accentuate anche all’interno dei singoli paesi: settore pubblico, grande impresa privata, piccole e medie aziende e sommerso – perché anche questo va contemplato nell’analisi – utilizzano spesso modelli assai differenti. Sto avviando proprio in questi giorni una ricerca che analizza questi aspetti, ma per avere risultati ci vorrà un po’ di tempo, si tratta di temi molto complessi”. Il punto di partenza della nostra conversazione è questo: la crisi economica mondiale arriva dopo oltre un decennio di deregulation dei mercati del lavoro e di privatizzazioni. Come incide sui modelli di relazioni industriali che si erano consolidati nel corso del ventesimo secolo? Si può dire che la crisi in atto inaugurerà una nuova tappa nella storia delle relazioni sindacali del nostro continente?

Crouch Innanzitutto una premessa. La crisi attuale è il risultato di un sistema economico, quello angloamericano, fondato sul debito privato che, a sua volta, è diventato parte integrante del modello delle relazioni industriali in atto in quei paesi e, in particolare, negli Usa. 

Il Mese In che modo? 

Crouch Negli anni ottanta negli Usa la questione principale fu: come assicurarsi la conservazione di un popolo di consumatori fiduciosi in presenza di un mercato del lavoro che, invece, creava una progressiva insicurezza. La soluzione – trovata all’inizio un po’ casualmente ma successivamente incoraggiata anche da specifiche politiche pubbliche – fu quella di separare la capacità di consumo delle persone dalle condizioni del mercato del lavoro. E tutto ciò è stato possibile sulla base di due fattori: la costante crescita del valore delle case e la possibilità di avere prestiti dalle banche proprio a partire da questo valore immobiliare e, dunque, senza una reale garanzia, perché poi i rischi di questi prestiti venivano spalmati e condivisi dagli istituti di credito sui cosiddetti mercati secondari. Questo è il modello neoliberista che ora sta crollando, ma che per un po’ ha funzionato: far sì che un lavoratore insicuro fosse, ripeto, allo stesso tempo, un consumatore fiducioso, perché solo da un livello alto dei consumi dipende la tenuta del sistema capitalistico. È per questi motivi che la crisi in atto coinvolge totalmente il sistema delle relazioni sindacali. 

Il Mese È successa la stessa cosa anche in Europa? 

Crouch No. In Italia, Germania – ma anche in Giappone – i governi hanno accettato la deregolamentazione dei mercati senza che si fosse però in presenza dell’altro aspetto, ovvero l’indebitamento dei consumatori. Il risultato è che queste economie sono rimaste quasi ferme. A questo punto, ora che il modello “nemico” è caduto, la sfida dei sindacati è questa: dare il proprio contributo alla costruzione di sistemi di relazioni industriali e di politica sociale che tengano insieme flessibilità e sicurezza, per esempio secondo il modello scandinavo. Questa potrebbe essere un’alternativa al modello angloamericano. È una sfida importante perché se fallisce, i governi e le élites economiche troveranno più conveniente ristrutturare il modello ora andato in crisi. 

Il Mese Lei crede che il modello scandinavo della flexicurity possa essere una strada giusta da seguire una volta superata la crisi globale? 

Crouch Certo, si tratta di un modello interessante, che tuttavia può essere esportato solo laddove esistono alcune condizioni imprenscindibili. Tra queste ci sono senz’altro: un welfare forte e strutturato, un’effettiva partecipazione delle donne al mercato del lavoro e un sistema di formazione continua ben funzionante sia per chi è in cerca di lavoro sia per chi già lavora. Se queste condizioni mancano, la flexicurity si traduce fatalmente in precarietà. 

Il Mese Quale ruolo potranno svolgere i sindacati e le associazioni dei datori di lavoro in un momento di profonda crisi come questo?

Crouch Negli anni recenti le imprese hanno generalmente preferito rapporti diretti con i governi, saltando anche la rappresentanza delle proprie associazioni Quest’approccio è ovviamente funzionale alle grandi aziende, ed è utile sia per escludere i sindacati sia per ritagliarsi un influente ruolo di insider. È un modello di tipo americano e fa parte integrante di quel sistema complessivo che comprende anche la finanziarizzazione dell’economia. In questi mesi questo modello – che per tanti anni è sembrato assai potente e anche affascinante – sta crollando e con l’arrivo di Obama gli stessi americani stanno mostrando verso di esso un’insofferenza maggiore persino, forse, di quella delle élites europee. È l’occasione giusta per sfidare apertamente quel sistema in tutti i suoi aspetti e dunque anche rispetto all’esclusione, che esso comporta, dei sindacati e delle associazioni di rappresentanza. Penso che le imprese potrebbero privilegiare un comportamento più rispettoso della dimensione “collettiva” delle relazioni industriali, soprattutto in un contesto in cui sentono più incerte le proprie prospettive e pertanto potrebbero avvertire l’importanza di avere buoni rapporti con i sindacati. Però c’è anche un rischio: e cioè che, se il mercato del lavoro continuerà a indebolirsi drasticamente, le imprese trovino più conveniente emarginare totalmente i sindacati e i bisogni dei lavoratori. In quest’ultimo caso, tuttavia, sarebbero i governi ad aver bisogno dei sindacati, perché essi non possono ignorare i propri elettori che, non va dimenticato, sono anche lavoratori. 

Il Mese Per rispondere alla crisi di liquidità in atto, e per cercare di sostenere le aziende in crisi, i governi stanno immettendo risorse sul mercato. Quale tipo di effetti potranno avere sul sistema delle relazioni tra le controparti gli interventi di salvataggio realizzati con soldi pubblici? 

Crouch Al primo posto metterei i problemi che riguardano la “competizione” che potrebbe nascere tra i diversi settori produttivi. Per stare all’Italia, perché aiutare banche e auto e non, ad esempio, il comparto del made in Italy? Insomma, le azioni dei governi finiscono per stabilire una gerarchia dell’importanza percepita dei diversi settori. In secondo luogo, va sottolineato come i settori sostenuti si troveranno poi in una situazione di dipendenza diretta dalle politiche pubbliche. Come si tradurrà questo rispetto alle relazioni sindacali? Nel passato la regola è stata che le imprese statali, ovvero dipendenti dai governi, dovessero avere relazioni assolutamente corrette con i sindacati e i lavoratori. È importante che anche oggi si insista su questo aspetto. 

Il Mese Passiamo ora ai sindacati. Lei crede che con una crisi così radicale in atto ci sia un rischio di protezionismo sociale da parte delle organizzazioni europee dei lavoratori? È possibile che i sindacati rivendichino che il lavoro in un paese debba andare ai cittadini di quello stesso paese, come pure è accaduto qualche mese fa in Gran Bretagna per i lavoratori italiani che lavoravano in appalto per la Total? 

Crouch Sì, il rischio c’è ed è serio. Ci si sente ancora come membri di nazioni diverse piuttosto che di una stessa classe sociale. Inoltre la tendenza è quella di indirizzare il proprio malcontento solo verso i governi nazionali, producendo in questo modo quella chiusura di cui lei parlava. Capitalismo globale e democrazia nazionale: questo è uno dei problemi cruciali della nostra epoca. 

Il Mese Quello che lei sostiene spiega anche perché il sindacato europeo non riesca ancora ad affermarsi pienamente? 

Crouch Sì, e tuttavia sarebbe anche ingiusto ignorare i progressi che il sindacato europeo ha realizzato negli ultimi decenni: si può dire senz’altro che almeno si è sviluppato un luogo di dialogo e di discussione, oltre al fatto che alcune azioni comuni sono state promosse e realizzate. Più in generale, più importanti e dinamiche diventano le istituzioni europee, più crescono i germi democratici dell’Europa, che sono essenzialmente il Parlamento e, appunto, il sindacato. Certo, negli ultimi anni questo processo ha anche dovuto subire delle frenate. Penso all’entrata in Europa di Stati con economie e società molto diverse tra di loro; alla crescente accettazione di un’ottica neoliberista da parte dell’Unione europea e della stessa Corte di giustizia europea – con le sentenze sul caso Laval e simili – che impedisce un’integrazione positiva a favore di un’integrazione tutta negativa e consegnata al mercato; sta pesando, infine, una certa rinazionalizzazione della politica, attuata da quasi tutti gli Stati membri che subiscono le pressioni dei movimenti populisti e xenofobi dei propri paesi. 

Il Mese In tutta Europa stiamo assistendo a una grande quantità di scioperi e manifestazioni contro la crisi molto partecipati. Non solo in Italia, con la manifestazione della Cgil del 4 aprile, ma anche in Francia, dove pure gli iscritti ai sindacati sono relativamente pochi. Cos’altro possono fare i sindacati in tempi come questi? 

Crouch I sindacati devono puntare ad avere un ruolo forte e istituzionale nelle realtà in cui operano. In questo modo possono ricavarsi uno spazio prezioso nel formulare proposte per superare la crisi. Certo, quando i sindacati vengono esclusi da questo coinvolgimento, non rimane altro che la piazza e l’irruzione della rabbia, genuina, delle persone. In fondo il potere dei lavoratori dipende molto dalla loro capacità di esprimere rabbia verso le ineguaglianze e l’arroganza dei potenti, come in questo caso le banche e le altre istituzioni finanziarie. Anche per questo è importante includere i sindacati nei processi decisionali ufficiali.

(da Il Mese)

29/04/2009 14:59