domenica 3 maggio 2009

IL LAVORATORE IDEALE



Il lavoro non è una punizione

di Aurelio Remigi

Le misure adottate e quelle annunciate dal governo di centro-destra evocano una visione cupa e punitiva del lavoro che chiama in causa non soltanto le modalità di svolgimento della prestazione, ma l'insieme delle condizioni materiali e psicologiche di migliaia di uomini e donne. Incentivazione dello straordinario per promuovere il prolungamento dell'orario di lavoro (ed i conseguenti incrementi di reddito), prorogabilità potenzialmente senza limiti dei rapporti di lavoro a termine, consistenti tagli occupazionali in settori chiave come la scuola, irrigidimenti nei confronti dei dipendenti pubblici indiscriminatamente indicati al pubblico ludibrio come "fannulloni" senza minimamente preoccuparsi degli effetti di demotivazione che ne possono derivare, in un clima generale di colpevolizzazione degno di miglior causa: sono tutti sintomi di una tendenza più generale, che sembra voler ridisegnare nel lungo termine non soltanto il modo di lavorare, ma anche e soprattutto, il rapporto tra il lavoro e i tempi della vita, nella loro scansione sociale e privata.

Le ottimistiche aspettative che hanno accompagnato la constatazione della fine del modello tayloristico-fordistico hanno progressivamente perso di credibilità, cedendo il campo all'evidenza di una realtà molto più contraddittoria e complessa: la promessa di un lavoro più ricco di contenuto intellettuale e progressivamente liberato dal peso della fatica fisica e del conseguente rischio, la fine di un modello organizzativo rigidamente gerarchizzato e la sua progressiva sostituzione con moduli funzionali più flessibili e più "partecipati" si sono rivelati, questi sì, schermi ideologici dietro i quali sovente si è celata una condizione di maggiore precarietà e di maggiore fatica, nella quale il tempo del lavoro tende a dominare e a condizionare tutto il resto della vita (si pensi, in proposito, al progetto di direttiva europea per allungare ulteriormente l'orario di lavoro settimanale).

La prospettiva che si apre al nuovo secolo, anche nelle democrazie occidentali, appare sempre meno allettante: il lavoratore ideale – non è un paradosso - è quello che, entrando tardi nel mercato, accetta condizioni sfavorevoli sia sul lato della retribuzione sia su quello della continuità del rapporto, e si acconcia ad una stabilizzazione tardiva e ad un prolungamento sia dell'orario quotidiano medio della prestazione sia della sua durata complessiva, a causa dello spostamento in avanti del pensionamento, in modo che il suo restare a carico della previdenza pubblica si riduca quanto più possibile. Insomma, una vita di incertezze e di fatiche, nella quale il tempo della prestazione accampa pretese di primato che non possono non tradursi in precoce logoramento fisico e psichico, e che comportano inoltre il rinvio di scelte di vita essenziali, a partire dall'abbandono della casa dei genitori, alla formazione di una propria famiglia e alla nascita dei figli (ma sempre più spesso di un solo figlio): con buona pace di quanti si atteggiano a difensori della famiglia, senza però muovere un dito per favorirne effettivamente la costituzione, salvo poi lacerarsi le vesti per il decremento demografico.

Il prolungamento della durata quotidiana della prestazione, a sua volta, fa premio su una visione della produttività di stampo paleocapitalistico, che tende ad escludere un modello di flessibilità in cui l'adattamento alle innovazioni di processo e di prodotto e l'evoluzione tecnologica costituiscano il presupposto per incrementi effettivi e stabili della produttività e, insieme, per la valorizzazione delle cognizioni del lavoratore, per il loro miglioramento attraverso la formazione continua e, in prospettiva, per la riduzione dei fattori di rischio e di fatica.

Affinché il lavoratore e la lavoratrice accettino un costante peggioramento della propria condizione, occorrono inoltre altri tre presupposti, tra loro strettamente collegati: in primo luogo, che sia sempre più ampia l'area delle disciplina della prestazione sottratta alla contrattazione collettiva, in modo tale che si accentui l'asimmetria del rapporto a sfavore del prestatore d'opera; in secondo luogo, che la contrattazione stessa trasformi la propria natura e divenga strumento attraverso cui sia possibile derogare ai vincoli posti dalla legge, non in senso solo più favorevole alla parte debole del rapporto; infine, che vengano accentuati tutti gli aspetti autoritativi del rapporto di lavoro, in una prospettiva in cui quello che conta realmente non è tanto la funzione direttiva come capacità di combinazione ottimale dei fattori produttivi (che giustifica razionalmente i rapporti di subordinazione), ma l'atto politico di riaffermazione di un potere di direzione che non ammette limitazioni e presenta se stesso nella forma neutra della necessità: in particolare, la necessità di competere sul mercato globale, contro concorrenti che sono avvantaggiati (non si dice, ma lo si pensa) per il semplice fatto che non devono fare i conti con gli impacci costituiti da regole, garanzie e tutele. Entrambi questi obiettivi rientrano appieno nella cultura del centro destra, e concorrono, in parte anche contro le intenzioni di chi li propugna, ad alimentare una visione plumbea e pessimistica della vita lavorativa, in cui fatica, rischio e precarietà sembrano destinati ad un incremento comparativamente più veloce ed intenso non soltanto del reddito, ma anche di ogni altra gratificazione, anche immateriale, che possa derivare dallo svolgimento di una qualsiasi attività.

Certamente, esistono elementi oggettivi da cui non si può prescindere, ed il peggioramento delle condizioni in cui si svolge il lavoro, sia quello subordinato sia quello autonomo, costituisce una modalità specifica per tentare di dare risposte a realtà incontrovertibili: certamente, la globalizzazione impone ritmi e termini di competizione diversi dal passato, che riducono oggettivamente i margini di manovra degli operatori; certamente, gli assetti demografici delle società più avanzate comportano oneri di carattere previdenziale e sanitario ai quali occorre fare fronte se non si vuole lasciare in eredità a figli e a nipoti (la cui autosufficienza è spostata sempre più avanti nel tempo) una società composta prevalentemente di anziani indigenti; e certamente, il tema dell'occupabilità non può essere affrontato distrattamente, e la fondamentale e irrinunciabile rivendicazione della buona qualità del lavoro non può ridursi ad una petizione di principio, poiché ciò rischierebbe di portare ad un drammatico immobilismo.

Al tempo stesso, è legittimo porsi alcuni interrogativi. A partire da una considerazione tanto ovvia quanto dimenticata, ossia che se è senz'altro vero che non si può ripartire la miseria e che una politica redistributiva non può non fondarsi su margini crescenti di produttività del lavoro, è altrettanto vero che occorrerebbe non scordare che il PIL è fatto di spesa per l'istruzione e per la sanità, tanto quanto di consumi superflui e di produzioni inquinanti e pericolose, e che, nel nostro paese, una quota non irrilevante di esso è prodotta in situazioni di illegalità totale o parziale, da manodopera irregolare (spesso immigrati clandestini), costretta a sottostare a condizioni di lavoro particolarmente degradanti: in tale contesto, non sarebbe male rivolgere una qualche attenzione non solo alla crescita in sé, ma anche al modo ed alla direzione in cui essa è orientata (non era questa un tempo la funzione essenziale della politica?), alla sua sostenibilità sociale e anche alla qualità dei consumi pubblici, come proponevano i forse troppo frettolosamente dimenticati teorici del primo centro-sinistra, nella loro ricerca di formule che coniugassero crescita ed equità sociale (certamente in ben altri contesti, a partire dalla condizione del debito pubblico, oggi non meccanicamente riproponibili).

Ancora: la accentuazione della componente autoritativa (se non autoritaria) nell'esercizio della funzione datoriale, è di per sé garanzia di maggiore produttività e, nel settore pubblico, di miglioramento quantitativo e qualitativo dei servizi offerti alla collettività? Non si tratta, ovviamente, di legittimare o rilegittimare comportamenti lassisti o forme più o meno gravi di assenteismo, ma di capire se la riduzione/rimozione di alcuni benefici (come l'indennità di malattia) e una certa propensione al mantenimento coatto delle persone sul luogo di lavoro, anche laddove condizioni temporanee lo rendano obiettivamente meno desiderabile, sia veicolo di effettivo miglioramento per la qualità della prestazione o del servizio erogato.

Nessuno nega poi la necessità di prolungare la vita lavorativa, ma, poiché lavorare oltre i sessant'anni è obiettivamente diverso da lavorare a trenta, quali misure, non soltanto di carattere pecuniario (v. bonus previdenziale) possono essere adottate per rendere non solo meno gravoso ma addirittura desiderabile (perché no?) il rinvio del proprio pensionamento? E, non meno importante, quali misure possono essere adottate per recuperare i lavoratori che, soprattutto nelle qualifiche medio alte, si trovano spesso ad essere espulsi dal mercato del lavoro ad età che non consentono una ricollocazione attraverso gli ordinari meccanismi del mercato del lavoro?

Le risposte a questi interrogativi richiedono un capovolgimento di prospettiva che apparirà senz'altro inattuale - non solo ai datori di lavoro, il che è ovvio, ma forse anche ai molti lavoratori che sono disposti ad accettare condizioni di lavoro particolarmente gravose, per il sentimento di incertezza del futuro che angustia le loro esistenze e talvolta anche per l'assenza di una prospettiva credibile di autotutela collettiva - se non addirittura utopistico o - come più ragionevolmente è prevedibile che venga definito - "conservatore": in questa nuova ottica occorre infatti affermare, in controtendenza rispetto ad una prassi ormai più che ventennale, che il lavoro costituisce in primo luogo una risorsa ed un'opportunità e solo in seconda battuta un costo. Il che, è bene dirlo, non significa rinuncia ad una azione incisiva e costante per la riduzione del costo del lavoro, ma che una tale azione deve guardare prioritariamente alla lavoratrice e al lavoratore, per favorirne l'occupabilità ed accrescerne il reddito.

Una tale inversione di tendenza, è inutile nasconderselo, richiederebbe una analoga riflessione anche in seno all'Unione europea, nella cui elaborazione normativa sovente le esigenze del mercato e della competizione globale tendono ad oscurare quelle del lavoro, in una logica che sembra in controtendenza, non sempre pienamente giustificata, rispetto al modello sociale europeo costruito dal dopoguerra in avanti.

Per le ragioni che abbiamo cercato sommariamente di delineare, è necessario oggi più che mai, intraprendere una battaglia ideale e culturale per riaffermare la visione costituzionale del lavoro e dei suoi diritti: rivolgersi ancora una volta alla Costituzione repubblicana, quale riserva di valori alla quale attingere in momenti di incertezza e di disorientamento, non significa gettare uno sguardo nostalgico ad un passato ormai remoto, ma tornare a percorrere strade che possono offrire prospettive inedite, e che possono parlare al cuore e alla mente di coloro che rischiano invece di adattarsi al presente con una rassegnazione che potrebbe, quella sì, diventare un punto di non ritorno, verso una regressione di grandi proporzioni, con effetti sociali inusitati e rischiosi.

Il posto del lavoro nell'ordinamento e nella vita associata è scolpito nei principi che aprono la Carta fondamentale, principi dei quali è indispensabile rivendicare la continuità, contrapponendosi senza timidezze alle retoriche revisioniste di cui pure è ricco il lessico politico attuale (non solo a destra): si tratta del riconoscimento dei diritti inviolabili della persona anche in seno alle formazioni sociali ove essa si realizza, dell'adempimento di doveri inderogabili di solidarietà, del diritto al lavoro come concorso al progresso della collettività, dell'affermazione dell'eguaglianza sostanziale come presupposto indefettibile di una effettiva cittadinanza sociale. Un grande giurista cattolico, Costantino Mortati, ha sottolineato più di cinquant'anni fa il nesso indissolubile che la Costituzione pone tra il principio personalista ed il principio lavoristico, come fattori integrantisi l'un l'altro, in nome del libero sviluppo della soggettività. Ora come allora, una visione laica e democratica della vita sociale presuppone lo sviluppo e non la coazione delle individualità e, diremmo oggi, la valorizzazione delle differenze quale presupposto di una eguaglianza "ragionevole". Una volta recuperato questo significato, è possibile porre con i piedi per terra il problema della tutela della dignità e della sicurezza della persona che lavora e delle misure necessarie per rendere possibile la concreta attuazione del diritto al lavoro, a partire dal tema della flessibilità, come creazione di condizioni soddisfacenti di occupabilità nel rispetto dei diritti fondamentali.

La Costituzione, peraltro, non è affatto indifferente al tema della occupabilità, tanto è vero che essa colloca le norme sulla tutela del lavoro (ed in particolare del lavoro subordinato), sulla previdenza, sull'assistenza e sull'ordinamento sindacale (anche queste, peraltro, dovrebbero essere attentamente ripensate, in relazione ai temi, non più eludibili, della rappresentanza e della rappresentatività delle organizzazioni dei lavoratori), nel titolo III della prima parte, dedicato ai rapporti economici, a fianco delle disposizioni sulla libertà dell'iniziativa economica e sulla proprietà: segno di una preciso invito, rivolto al legislatore ordinario ed alle parti sociali, a non perdere di vista, nel dettare le regole del lavoro, l'esigenza di non creare impacci e vincoli superflui che, al di là delle intenzioni, possano costituire oggettivamente un ostacolo all'ampliamento della base occupazionale.

In altri termini, occorre modificare una gerarchia di valori e rimettere con i piedi per terra un ordine di priorità, che appare oggi eccessivamente squilibrato in favore di una visione che, nel privilegiare la determinazione di condizioni di offerta di lavoro favorevoli all'acquirente, ha perso di vista ciò che un tempo era considerato senso comune, ovvero che l'asimmetria strutturale del rapporto di lavoro è costituita dall'essere il prestatore impegnato non solo con una parte del suo patrimonio, ma con tutta la sua persona, e che tale asimmetria rende tale rapporto specifico e diverso da qualsiasi altro contratto. I costituenti avevano ben presente tale incontrovertibile realtà e, con essa, la necessità, per dare vita ad un ordinamento realmente democratico, di costruire un patto in cui la posizione complessiva del lavoro nella società fosse ridefinita, superando la condizione storica di subalternità in cui aveva versato nei precedenti regimi costituzionali. Il trascorrere degli anni non ha mutato l'attualità di questa opzione, né appare particolarmente innovativa la linea di quanti, con una discutibile idea di modernità, si richiamano alla centralità dell'impresa ed alla valorizzazione della soggettività del lavoratore (non senza una certa ipocrisia, in questo ultimo caso) per propugnare un modello di relazioni industriali basato sulla individualizzazione del rapporto di lavoro e sulla utilizzazione del contratto collettivo non più come strumento di regolazione del conflitto, ma come grimaldello per forzare i limiti posti dalla legge a tutela del contraente debole. Per tale strada si giunge al paradosso di criticare i modelli sociali novecenteschi per proporre, come soluzione, quelli del secolo precedente!

L'evoluzione (e/o involuzione) di questi anni, la globalizzazione, la fine del modello fordista e in particolare della sua componente di genere, il mutamento stesso del lavoro come funzione produttiva e riproduttiva della vita sociale non hanno intaccato le esigenze di tutela e di promozione evocate dalla Costituzione, anzi, da un certo punto di vista, le hanno rese ancora più attuali. Quanto più la subalternità e l'impoverimento spirituale e materiale del lavoro vengono presentate come l'unica strada percorribile per fare fronte alle sfide del mercato globale, tanto più è necessario respingere questo aut aut e ripartire, con la dovuta e probabilmente indispensabile testardaggine, da una visione positiva e umanistica del lavoro, come fattore primario di realizzazione della personalità, quale la Costituzione della Repubblica volle affermare, sessanta anni fa, additando ad un paese drammaticamente ripiegato su se stesso la strada del riscatto sociale e civile.

25/09/2008 13:2

FONTE :RASSEGNA .IT